selenevalentina

mercoledì 29 giugno 2016




PARMA
Nata in altro luogo, poco ti conoscevo.
Non avvezza a traffico e nebbia, ma subito ti ho amata.
Il sentirmi, nullità, di fronte alla Pilotta.
Ilperdersi dello sguardo, negli affreschi del Duomo.
Il ritrovare mesi e stagioni, nel Battistero.
Il sognare una serata, in un palco del Regio.
Piccolo era prima il mio mercato e qui
La Ghiaia, i box, le luci e le vetrine.
quelle voci invitanti, l’allegra confusione.
Il the  sorseggiato nel dehor, del bar in centro.
Le nuove amiche, mai dimenticate.
e le domeniche al Vespa club, ad ascoltare, I Corvi.
Le uscite in bicicletta, a Cavalli o ai Tri Sciochètt
cantando in coro, Ciao Ciao, di Petula Clark.
Ricordi di gioventù, felice e spensierata
racchiusi in un capitolo, da un nastro rosso.
La vita, ancora in altro luogo mi ha portata
ma una piccola radice, è rimasta, fra gli alberi del Parco
S’abbevera nel laghetto dove un bianco cigno
Con regale eleganza, sull’acqua scivolava.
              




1956
Dalla strada comunale si giungeva, di fronte all’arco con cancello, sempre aperto, della grande corte contadina. La casa a forma di elle ospitava due famiglie. I proprietari erano tre fratelli di cui, uno solo era sposato. La moglie, aveva venti anni di meno, del marito. Bionda, grassottella, che sfogava l’infelicità, di un matrimonio obbligato, cucinando e mangiando. Aveva cinque figli ma, il protagonista del racconto vero, aveva appena festeggiato il quarto compleanno, proprio in quell’anno. Il piccolo Dino, cresceva felice,
seguendo il lavoro dei grandi e giocando con il grosso cane. Praticamente non aveva giocattoli e in casa, non possedevano neppure una radio.  Di giornali e giornaletti, neppure a parlarne. Il padre era troppo avaro per concedere quei lussi. Quando però non si conosce come è il mondo, al di fuori dei monti attorno, non potevano esserci grandi aspettative, per una mente innocente.
 La madre, aveva cresciuto i figli con dolcezza, alternata a severità e in casi di disubbidienza, era la bacchetta, che teneva aportata di mano, a lasciare segni sulle gambe. Aveva proibito a Dino di allontanarsi , da solo, dal cortile. C’erano spesso zingari in giro e aveva paura che lo rapissero.
Un giorno, intenta nelle solite faccende, si accorse della mancanza del bambino. Lo cercò in ogni angolo senza risultato. Disperata, stava per andare a chiedere aiuto agli uomini, quando lo vide arrivare tranquillamente.
 Dove sei andato, lo sai che non ti devi allontanare dal cortile e le parole furono seguite, dal segno rosso, lasciato dalla bacchetta sulle gambe.
Mamma, non sono scappato. Sono andato nel prato grande perché , gli omini belli mi hanno chiamato. Avevano bisogno di me.
Omini belli? Erano gli zingari che volevano portarti via?
 Ma no mamma, sono omini  molto più piccoli di me. Sono scesi da una grossa palla, un po’ schiacciata. Sono molto belli e la donna, ha lunghi capelli biondi. Sai mamma, nonè che parlassero ma io li capivo e li dovevo aiutare  per ripartire. C’era una spece di ferro che dovevo togliere.
 La madre, non sapeva cosa fare. Che stava dicendo, suo figlio? Era impazzito o aveva solo la febbre molto alta? Lo portò in casa e gliela misurò. Niente febbre. Era fresco e aveva anche fame.  Forse qualche vicino, gli aveva raccontato una storia strana? Si fece ripetere la cosa e si fece promettere che non si sarebbe più allontanato, che la bacchetta, era sempre pronta. Passarono giorni tranquilli ma un pomeriggio, eccolo scomparire di nuovo.  La scena e le parole del bimbo, furono fotocopia della volta precedente. La povera donna, non sapeva cosa fare. Ne parlò con gli uomini, dicendo che avrebbe portato Dino dal dottore per una visita completa. Gli uomini scoppiarono a ridere, dicendo che erano solo fantasie di un bambino, che non sapeva come divertirsi. Il padre, gli comperò anche un pallone perché potesse sfogare la sua voglia di correre. Periodo tranquillo, ma quando il fatto accadde per la terza volta, la donna decise di passare alle maniere forti. Lo picchiò con la bacchetta, lo mandò a letto senza cena e per diversi giorni, lo tenne chiuso in casa.
Osservandolo, vide che aveva spesso in mano un oggetto strano e ci giocava. Cosa poteva essere? Dove lo aveva preso? Glielo chiese e la risposta, la lasciò senza parole.
 Questo mamma, è il pezzo che devo togliere dalla grossa palla degli omini, perché possano ripartire.
Glielo prese e lo mostrò agli uomini e agli altri figli. L’oggetto fu esaminato a lungo senza riuscire a capire, di che materiale fosse fatto. Provarono a piegarlo, a scalfirlo, a romperlo. Nulla. Dino, continuava a raccontare la sua versione. La madre glielo nascose e lo minacciò, di venderlo agli zingari, se non smetteva di dire bugie. Il castigo terminò e dopo qualche giorno, eccolo sparire di nuovo. Al ritorno, la donna, fece per alzare la bacchetta ma si fermò. Sul viso del bimbo, c’era un’espressione di smarrimento, che la turbò. Chiese, dove fosse andato.
Mamma, ma sono sempre rimasto qui a giocare con la palla e il cane!
Non sei andato dagli omini belli?
 Dino la guardò stupito, senza capire. Che stava dicendo, sua madre? Lei si zittì e  tenendolo sotto osservazione, notò, che quando qualcuno parlava degli omini, lui sembrava non capire.
Gli anni volarono. I fratelli migrarono all’estero e il padre anziano, chiuse gli occhi. Erano passati vent’anni giusti e Dino, era rimasto accanto alla madre, per prendersi cura del podere. Un pomeriggio, intenti a mettere la frutta nelle cassette, la madre, lo sentì mandare un gemito e sbiancare in volto. Lo fece sedere, gli portò dell’acqua e stava per telefonare al medico quando lui la bloccò. La fece sedere accanto e chiese.
Mamma, ti ricordi quando avevo quattro anni e ti parlavo, di omini belli?
A questo punto fu la donna a mandare un gemito. Non poteva ricominciare ancora con questa storia. Ora non poteva più metterlo in castigo e la bacchetta, non esisteva più…. L’uomo cominciò a raccontare….
Vedi, io mi sentivo veramente chiamare da quei piccoli esseri.Scendevano veramente da una grossa specie di palla schiacciata e quando volevano ripartire, io dovevo spostare, quell’oggetto che avevo portato a casa ma, che non ho più ritrovato. Tu non mi credevi e l’ultima volta che sono andato, ho pensato, che ne avrei preso uno, per portartelo a fare vedere. Probabilmente, hanno capito il mio pensiero. Sono diventati cattivi, mi hanno minacciato e detto, che per vent’anni, non mi sarei ricordato di loro. A quel punto, mi colpirono con una luce forte e mi sono ritrovato nel cortile, ad ascoltare te, che parlavi di cose strane….
Questo racconto, è vero. Non l’ho vissuto in prima persona ma ero accanto ai protagonisti ed essendo ancora bambina, la vivevo come una fiaba. La donna se ne è andata da anni ma Dino, è ancora fermo, nel raccontare questa storia.

mercoledì 22 giugno 2016





Foto di Flavio Nespi
ESTATE

Scioglie le briglie oggi il cuore
segue il vagabondo pensiero, che torna
dove più, non costruisce ricordi.
Sguardo posato su distese mature
di biondo dorato, di rosso di blu
che al sole d’estate,  si ergono ignavi
della falce, che non conosce pietà.
Va oltre curioso, a evonimi e rose.
Dove un vecchio, seduto su panca
spera che la sera, tardi a venire.
Un cane accucciato ai suoi piedi
Si perde in un sogno, di lepre inseguita.
Un cuculo duetta con l’eco lontano
fra alberi antichi, che oscurano il bosco.
Ghirigori di tralci, adese a pietra
Che di passato, ha da raccontare.
Trattiene le briglie del cuore, il pensiero.
Lo ha visto posato su spina di rosa. Ricorda
Il profondo  dolore di un’estate lontana.
Lo prende, come bimbo lo culla, lo ninna
Perché, s’assopisca ancora, il dolore.






Foto di Flavio Nespi
ESTATE

Scioglie le briglie oggi il cuore
segue il vagabondo pensiero, che torna
dove più, non costruisce ricordi.
Sguardo posato su distese mature
di biondo dorato, di rosso di blu
che al sole d’estate,  si ergono ignavi
della falce, che non conosce pietà.
Va oltre curioso, a evonimi e rose.
Dove un vecchio, seduto su panca
spera che la sera, tardi a venire.
Un cane accucciato ai suoi piedi
Si perde in un sogno, di lepre inseguita.
Un cuculo duetta con l’eco lontano
fra alberi antichi, che oscurano il bosco.
Ghirigori di tralci, adese a pietra
Che di passato, ha da raccontare.
Trattiene le briglie del cuore, il pensiero.
Lo ha visto posato su spina di rosa. Ricorda
Il profondo  dolore di un’estate lontana.
Lo prende, come bimbo lo culla, lo ninna
Perché, s’assopisca ancora, il dolore.



lunedì 20 giugno 2016




Piaceva alla bambina, la posizione della vecchia casa dove abitava. Il panorama si apriva sull’ampia valle, sulla corona dei monti e sul castello, possente, maestoso, che la faceva sognare. Una leggenda narrava, che intorno alla casa, in alcune notti, si poteva vedere un bellissimo cavallo che galoppava. Non lo aveva mai ne visto, ne sentito ma, la curiosità era grande. Una sera d’estate sdraiata nel prato, per controllare se le stelle dell’orsa maggiore, erano tutte accese, se lo trovò di fianco. Ne fu stupita ma, non spaventata. La invitava a salire in groppa e lei si ritrovò abbracciata al suo collo, con una guancia affondata nella criniera. Non aveva ali, il cavallo, galoppava libero nell’aria. Superò il castello, i monti, il fiume e si fermò davanti al mare, che lei non conosceva. Ne aspirò il profumo, ascoltò  il rumore delle onde, che si frangevano contro la falesia. Voleva raccogliere una conchiglia ma, la mano della madre la scosse per invitarla ad andare a letto? Sogno? Realtà? Si tenne il segreto nel cuore e il giorno dopo scrisse dei pensieri in un quaderno. Il tempo poi, la portò in città. Vita diversa, amicizie, divertimento, novità in ogni via e il cavallo scomparve. Si ritrovò poi donna e madre impegnata. Un giorno la vita, cominciò ad accorciarle, sempre più, l’orizzonte. Una notte insonne, le ritornò, il ricordo di quel destriero. Piangendo in silenzio, lo pregò di essere ancora la sua guida. Arrivò velocemente e lei felice, affondò di nuovo il viso nella criniera. Da allora non si sono più lasciati e nelle notti insonni, basta un pensiero, per galoppare via.
Non vi ho detto il nome di questo mio amico…. Io lo chiamo… .Fantasia….