selenevalentina
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venerdì 6 giugno 2014

Verbena



Giocare… Li sente in lontananza Verbena, quelle voci di bimbi, che stanno giocando, nel parco vicino Giocare… giocare… Quanto si era divertita da bambina, con le amichette… Bambole, pentolini, corse in bicicletta. Quando poi, aveva cominciato a frequentare le scuole medie, un altro gioco, era entrato nella sua vita e se ne era innamorata… Il Basket, le aveva fatto compagnia, per molti anni. Quando la palla entrava nel cesto, le sembrava, che le braccia diventassero ali. La facevano sentire leggera, leggera… Le braccia… quelle braccia, ora inservibili… Che cambiavano posizione, solo quando qualcuno, lo faceva per lei. Carla, le ripeteva in continuazione, che doveva avere speranza e fiducia nel futuro e nella scienza. Già la scienza… E perché non provare a dare un aiuto a questa benedetta scienza… Aveva sempre sentito dire, che a volte la volontà, fa fare progressi… E poi esistevano i neuroni specchio… Ecco… doveva trovare in internet, un programma, dove insegnavano movimenti di ginnastica, oppure guardare partite di basket e concentrarsi al massimo… Magari non sarebbe servito ma, avrebbe tenuto il cervello attivo. Doveva farlo, diverse volte al giorno… Sì… doveva giocare con la mente… Ecco, la decisione era presa… “Forza Verbena” si dice… fai vedere, quanti canestri riesci a fare…

mercoledì 5 febbraio 2014



CONTINUITA'




Mi sveglio in una notte d’estate

in una camera di un albergo di Spagna

già conosciuta dopo qualche tournée.

Musica di chitarre in lontananza

è una forza che il letto mi fa lasciare.

Apro i vetri della grande veranda

e la musica si fa incalzante.

Scendo i gradini che portano in spiaggia

mentre la luna mi guarda perplessa.

Alzo le braccia, ali verso il cielo

assecondo il flamenco che l’animo strugge.

Agili i piedi danzano nella sabbia

mentre onde mi bagnano le caviglie

pressante invito a seguirle.

Di sole l'acqua è ancora calda

m'inoltro, m'immergo... mi lascio morire...

Rinasco in un piccolo corpo di bimba

in una sterile sala da parto

di un continente dall’altra parte del globo

Musica di chitarre in sottofondo

che accompagna il mio primo vagito

Un fremito si irradia e tutta m’avvolge

e la danza già è dentro al mio corpo.




FLAMENCO




"Sei nata sorridente"

Era una frase, che Alejandra, si era sentita ripetere decine di volte, dai genitori e dai parenti. E' vero, il sorriso era una caratteristica, che mai l'aveva abbandonata. Aveva avuto una vita, spesso movimentata ma, serena e appagante. I genitori l'avevano adorata e colmata di quell'amore, di cui loro stessi erano colmi. Era nata in Spagna, figlia di

ballerini di flamenco, che per anni, si erano esibiti sempre insieme, in teatri di tutto il mondo. La musica del flamenco, era stata, la prima colonna sonora. Ascoltata nella culla e negli anni a venire, era diventata, la ragione di vita. Era bella Alejandra, Lunghi, ondulati capelli corvini e occhi neri, lucenti come stelle. I genitori, erano stati i suoi maestri e ben presto, aveva cominciato a calcare palcoscenici. Chi la guardava danzare, ne rimaneva folgorato. Non era molto alta ma leggera e sinuosa e quel suo alzare appena la larga gonna a balze, che metteva in evidenza i tichettanti tacchi, accendeva il fuoco in molte menti. La carriera l'aveva portata a visitare, le più interessanti città, dove spesso si tratteneva per scoprirne le opere d'arte. Amava ogni cosa bella, dai quadri, ai monumenti, alla variegata natura. Si incantava di fronte a corone di montagne e ai tramonti, che infuocavano il mare. Ma quando voleva un periodo di vero riposo, se ne andava in un piccolo albergo, in un paese nel sud della sua amata Spagna. Le riservavano sempre la stessa stanza. Non era il lusso, che la interessava, di quello non si era mai innamorata. Quello, di cui sentiva il bisogno e che qui riusciva a trovare, era la semplicità e il silenzio. La camera, aveva una porta finestra, che si apriva su una veranda, che d'inverno era chiusa da vetri, in modo da poter ammirare il mare. Dalla veranda, scendendo pochi gradini, ci si trovava direttamente su una piccola, tranquilla spiaggia. Il mare, era suo amico. L'accoglieva, l'abbracciava, la accarezzava e la sosteneva. Qui, ritrovava sempre il dialogo con se stessa. Quel dialogo, di cui aveva bisogno, prima di affrontare un'altra tourné. Aveva avuto molti corteggiatori ma il suo unico amore era il flamenco. Unico amore, fino a quando aveva conosciuto joachin. Grande ballerino anche lui e insieme avevano condiviso, serate e applausi. Nonostante l'amore, non aveva mai voluto suggellarlo con il matrimonio. Non ne aveva mai parlato con alcuno ma, sentiva da sempre dentro, una incertezza, come una premonizione per il suo futuro. Non comprendeva cosa fosse e quel timore latente, ogni tanto riaffiorava . Joachin, aveva accettato la sua decisione e le era sempre rimasto accanto, con tenerezza e fedeltà. Capiva quando doveva essere presente e quando doveva lasciarla libera di vivere i suoi momenti di raccoglimento. Era ormai sulla soglia dei quarant'anni. Non era certo la tranquillità finanziaria a preoccuparla e lei non aveva mai sperperato denaro in cose futili, preferiva, fare donazioni, per la ricerca di malattie rare. Faceva ancora qualche spettacolo perché la musica, le scorreva nelle vene ma erano solo singoli spettacoli o brevissime tournee. Ora il sogno, che voleva realizzare, era una scuola di danza. Avrebbe insegnato il flamenco alle bambine, cercando di trasmettere il fuoco, che scaldava le vene. Era agosto e ancora una volta era tornata nel solito albergo. Quella mattina, si era alzata tardi. La notte non era stata delle più tranquille e al risveglio si era ritrovata, con un piede e una mano formicolanti. "Posizione Sbagliata". Aveva pensato. Una doccia e il problema se ne andò. I giorni passavano pigri, fra bagni di mare e ore con un rilassante libro. A sera tardi, sentiva giungere da lontano, musica di chitarre e capitava, che quasi senza accorgersene, si trovasse a danzare da sola. Il miracolo, che la musica le dava, si rinnovava. Dopo qualche giorno, si era svegliata nuovamente con il formicolio, questa volta più forte, che aveva tardato a passare. "Una visita medica, non potrà certo farmi male. Meglio prendersi cura della propria salute" pensò sorridendo. Il dottore, che la conosceva da anni, la convinse a farsi ricoverare in clinica per qualche giorno. Era un consiglio con un tono, che non ammetteva repliche. I pochi giorni, diventarono un mese abbondante. Le analisi si susseguivano. TAC, risonanze magnetiche, scintigrafie totali e ogni genere di approfondimento. Poi un giorno, ecco la tremenda diagnosi... SLA... Alejandra, si sentì mancare le forze. Il neurologo spiegò, che la malattia, poteva anche essere a lenta evoluzione, anche se non vi erano certezze. Era giovane, non aveva altre patologie, poteva pensare positivo. Invece la malattia, fece di testa sua e il calvario, cominciò a fare sentire il suo peso. Joachin le stava accanto, cercando di infonderle speranza ma, lei percepiva, che non avrebbe retto a lungo la

situazione. Un giorno, gli fece capire, che non aveva obblighi e se voleva, poteva riprendere la sua vita, dedicata al flamenco. L’uomo, non se lo fece ripetere due volte. La salutò, giurando, che sarebbe bastato un suo squillo di telefono e lo avrebbe visto, correre al suo fianco. Quello squillo non giunse mai. Alejandra, meditò molto sul suo avvenire. Era perfettamente consapevole, che le forze l’avrebbero abbandonata e avrebbe avuto bisogno di continuo aiuto da persone e da macchinari per restare in vita. La cosa la sconvolgeva. Non accettava l’idea di diventare un vegetale. Con un notaio, preparò un testamento in cui lasciava scritto la volontà, di non avere mai un accanimento terapeutico. e di essere lasciata in mano, al decorso naturale. Era Agosto, ancora una volta e lei, era lì, sola, ancora una volta… E quella musica in lontananza… Il mare era un amico. Accompagnava i movimenti con le onde… La luna fremette ascoltando, un primo vagito, provenire, dall’altra parte del mondo.


FATA?....O……



“Nonna, raccontami una fiaba”. “Ma ora dovresti dormire”. “Lo so ma, non ho sonno e poi domani, non devo andare a scuola”. “ E va bene. Te ne racconto una breve. Visto, che fuori sta nevicando, ti racconterò una storia, che mi ha raccontata una mia amica. E’ una storia vera, capitata proprio a lei. Tieni, prendi in braccio il tuo peluche e ascolta”.
Era andata in montagna, quel giorno. Anche se era sola, non aveva paura. Conosceva a memoria quel monte. Vi andava fin da bambina. La giornata, era splendida.
Le alte vette s'immergevano in un cielo talmente azzurro e profondo, che lei provava l'irrealizzabile impulso di tuffarcisi dentro. I declivi erano ricoperti da neve ghiacciata, che senz'altro doveva essere cosparsa di polvere di diamanti, che il sole faceva luccicare in arcobalenanti iridescenze. Alla sua destra, in quello che era un sentiero che s’innoltrava nel bosco, scorse delle orme. Erano senza dubbio orme femminili ma erano appena accennate, come se chi le aveva lasciate fosse estremamente leggera, in grado di camminare sfiorando appena il suolo innevato. La curiosità era forte. Perché quindi non seguirle? Era strano voltarsi indietro e vedere le proprie orme, piccole ma profonde, accanto a quelle di un enigma. Ad un tratto si trovò di fronte ad una quercia secolare, con il tronco squarciato da un fulmine, a mò di grotta e proprio qui le orme terminavano. Si guardò attorno per scorgerne altre ma, una nebbia improvvisa e impenetrabile, impediva di vedere anche a pochi centimetri di distanza. La cosa la turbò. Che poteva fare? Tornare indietro non era prudente perché, poteva perdersi nel bosco e scivolare in qualche crinale. Era stanca ma non poteva sedersi sulla neve. Decise allora di entrare nella nicchia del tronco. Tolse lo zainetto dalle spalle e si accomodò come meglio poteva. Dopo tutto non era neppure troppo scomodo. Prese dallo zaino il thermos pieno di thè, ancora quasi bollente, ne bevve alcuni sorsi e chiuse gli occhi per godersi il calore, che la ritemprava…
Il camino era piccolo ma, la fiamma era viva, danzante e mille scintille si rincorrevano e si perdevano nel buio della cappa. Davanti vi era un morbidissimo tappeto, era di un verde molto scuro e aveva un buon odore di muschio, Lei vi era comodamente seduta e si rilassava al tepore. La penombra le impediva di distinguere chiaramente la persona seduta accanto. Scorgeva appena un viso ovale, incorniciato da lunghi e ondulati capelli. Aveva una veste di un azzurro scuro, che la ricopriva fino ai piedi, con maniche larghe, dalle quali uscivano le mani morbide e affusolate, che le porgevano una tazza trasparente colma di una bevanda fumante. Era buona, e il sapore era dei frutti freschi del bosco e del miele grezzo. La figura femminile si alzò muovendosi leggera come se sfiorasse appena il pavimento e scomparve. Non avevano parlato ma si erano comprese ugualmente. Un ciocco del camino scoppiettò, la musica di arpe, che giungeva in lontananza si spense e lei aprì gli occhi. Dov’erano il camino, il tappeto e la diafana figura? Le gambe un poco intorpidite la portarono in fretta alla realtà. Uscì dalla nicchia dell’albero e si stirò per risvegliare i muscoli. La nebbia se n’era andata e seguendo a ritroso le orme che aveva lasciato poteva tornare facilmente al luogo di partenza. Si chinò per prendere lo zaino e scorse ai piedi dell’albero una foglia e un rametto. Li prese in mano, osservandoli attentamente. Erano chiaramente di Nocciolo ma nelle vicinanze non vi era presenza di questi alberi e anche se vifossero stati non avrebbero certamente avuto foglie e rami freschi. Li raccolse e si avviò pensierosa. Alla sera, giunta a casa, fece una doccia, si mise una calda tuta e si preparò una cena leggera. Accese anche la televisione ma non ascoltava le notizie perché la sua mente cercava ancora di risolvere il mistero del suo strano ritrovamento. Mangiò, lavò i piatti, riordinò la cucina e si avvicinò alla libreria per prendere un libro dove aveva deciso, avrebbe messo i due tesori boschivi. Ne scelse uno a caso, lo aprì e lesse alcune righe….– Fra i tanti e misteriosi abitanti dei boschi, vi sono anche le fate. Sono creature gentili e ricavano le loro bacchette magiche dai rami dell’albero del Nocciolo……
La bimba, guardò la nonna e chiese. “Nonna ma, sei proprio sicura, che sia una storia vera?”. “La mia amica, mi ha mostrato diverse volte, quella foglia e il rametto racchiusi nel libro. Ti assicuro, che nel corso degli anni, non hanno mai perduto la loro freschezza. Come posso io, dire, che la storia non fosse vera. Siamo sicuri di conoscere bene, la vita dei boschi?”. Gli occhi della bambina si stavano chiudendo. Strinse il suo peluche e si addormentò. Chissà, se avrà sognato fate. Io credo di sì…




sabato 9 novembre 2013

GRATTA E VINCI

Era ancora un ragazzino, quando aveva cominciato a lavorare. Aveva fatto migliaia di chilometri, mentalmente, insieme a quel nastro trasportatore, che gli scorreva davanti. A lui aveva confidato sogni, speranze, l’ansia e la paura per il suo futuro. La sua, era una famiglia modesta, dove era difficile accantonare qualche risparmio, per le evenienze impreviste e questa era stata una preoccupazione, che non lo aveva mai lasciato. Poi un giorno, a quel nastro, che correva in fretta, aveva confidato Il primo amore e in seguito, il fidanzamento, il matrimonio, la nascita del figlio, le gioie, i dolori, i sacrifici, compagni di ogni famiglia. Ma oggi, era un giorno di festa perché, dopo quarant'anni di lavoro, era andato in pensione. Lui e la moglie erano ancora giovani, il figlio era sistemato e aveva una bella famiglia, quindi potevano godersi un pochino la vita. Certo, con la liquidazione, non avrebbe potuto acquistare quella bellissima villa, immersa in un grande parco, appena fuori dal paese, che aveva visto nella pubblicità, di un'Agenzia Immobiliare ma, qualche viaggetto, se lo sarebbero potuto permettere. E forse, poteva mandare in pensione anche quella benedetta ansia degli imprevisti. Si fermò dal giornalaio per comperare una rivista e vide diverse persone che si lasciavano tentare dai vari, gratta e vinci. Non ne aveva mai preso neppure uno, pensava che fossero soldi buttati e non aveva molta fiducia nella fortuna. Quello però era un giorno speciale e si lasciò tentare. Con la rivista in mano e il biglietto nella tasca, ritornò a casa. Si accomodò sul divano del salotto, prese il biglietto, cercò una monetina per togliere la patina dorata con un poco di apprensione. Il telegiornale stava dando le ultime notizie e lui si fermò ad ascoltare poi, decisamente, raschiò la vernice e cominciò ad urlare per la sorpresa. Aveva vinto quel meraviglioso superpremio ambito da tutti... Ora si che poteva acquistare quella villa e altro ancora. Nel giro di pochi giorni fece tutte le pratiche e in men che non si dica si trovò nella nuova casa. Era meravigliosa, con una grande veranda, una cucina con tutti i più 
moderni elettrodomestici, arredamento favoloso e nel parco, anche un laghetto con tanti pesci guizzanti, per soddisfare la sua passione per la 
pesca. Per il piacere della moglie, c’erano aiuole con ogni specie di fiori e un roseto, che emanava un intenso profumo. Stanchi per la pesante giornata, erano andati a dormire e al mattino fu il cinguettìo degli uccellini a destarlo. Andò in cucina, il caffè, caldo e fragrante era già pronto e sul tavolo, una fruttiera con frutta fresca. Non c’era presenza della moglie ma pensò, fosse indaffarata con il giardino. Decise, che quella mattina, avrebbe fatto un giro fino al paese, per provare la nuova bicicletta. Indossò una tuta sportiva, prese il mezzo dal garage e imboccò il vialetto principale, che conduceva al cancello del parco, da cui si accedeva alla statale. Pedalò per parecchi minuti, mentre ammirava la bellezza, che lo attorniava e all’improvviso si ritrovò al punto di partenza. Cominciò a ridere da solo. Era stato talmente intento ad ammirare i suoi i possedimenti, che aveva sbagliato il percorso. Tranquillo ripartì, stando attento a non sbagliare di nuovo ma dopo pochi minuti, si ritrovò ancora davanti all’ingresso della villa. La cosa cominciò a preoccuparlo. Certo il parco era vasto, forse doveva mettere qualche segnale nei vialetti per non confondersi. Ripartì e stette bene attento a non uscire dal viale principale ma, ancora una volta si ritrovò davanti alla villa. Scese dalla bici, entrò in casa per bere un bicchiere d’acqua e della moglie ancora nessuna presenza. Uscì di nuovo, cercando di mantenere la calma, inforcò la bici, cominciò a pedalare con sempre maggiore energia. Provò e riprovò per molte volte e ogni volta, che si ritrovava allo stesso punto, sentiva che l’angoscia si stava impadronendo della sua mente. Che cosa stava accadendo? Era prigioniero della sua casa? E la moglie dov’era? Con il cuore in gola, sudato fradicio cominciò ad urlare il nome della sua compagna. All’improvviso si sentì scuotere mentre la voce della moglie lo riportava 
alla realtà. Si guardò attorno e comprese, che si era addormentato 
davanti al televisore nel suo vecchio salotto e aveva avuto solo un sogno, anzi un incubo. Sentì la moglie che diceva “Che cosa stavi sognando di tremendo? Mi chiamavi in modo disperato. Che cos’hai in mano? Un gratta e vinci? Ma non hai ancora tolta la vernice? Dammi faccio io.” Lui la guardò 
compiere l’operazione, mentre il groppo in gola stava ritornando. Lei gli 
riconsegnò il biglietto, con aria delusa, dicendo, che non c’era nessuna vincita e non capì, perché il marito cominciasse a ridere per la felicità, mentre l’abbracciava e la faceva piroettare intorno al tavolo.

lunedì 14 ottobre 2013

CAMINITO

Caminito cubierto de cardos.- Sono le parole del celebre tango, che mi ritrovo a canticchiare sommessamente, imboccando lo stretto sentiero, che curva dopo curva, sale fino alla piccola cappella. Mi guardo attorno. Il panorama è meraviglioso. Non lo ricordavo così; forse allora, vedendolo continuamente, lo davo per scontato, senza fare caso ai particolari. Un gruppo di asinelli sta pascolando nel prato. Mi fermo ad osservarli e il più piccolo si avvicina guardandomi con occhi grandi e dolci. Preme il muso contro il mio fianco cercando carezze. Apro il marsupio, prendo un pacchetto di crackers ed ecco, mi sono conquistata un amico. Saliamo insieme e il pacchetto man mano si svuota. Quanti anni sono passati! Quaranta, una mezza vita. Era il 15 Agosto, quell'ultima volta. Vent'anni e una vita ancora da scoprire. C'era sagra quel giorno, che ricorda la Vergine Maria. Eravamo il solito gruppo di amici e amiche. Avevamo mangiato nel prato, dopo aver ascoltato la Santa Messa davanti ad un altare improvvisato, sotto ai grandi faggi. Avevamo riso, scherzato e cantato mentre mangiavamo il cibo portato da casa e poi c’eravamo sdraiati sull’erba, con quella voglia di far niente. Bruno, sottovoce, mi aveva invitata ad andare con lui proprio in quel sentiero, così tanto per fare una passeggiata. Lo avevo seguito perché adoravo camminare e poi volevo salutare la Madonnina, che sembrava attendere i viandanti là in alto. Il sentiero era ripido ma non per noi con gambe allenate alla montagna. Intorno alla cappellina c'era un muretto e lì c'eravamo fermati per riposare. Bruno mi aveva preso le mani e mi aveva dichiarato il suo amore, mentre un asinello ci guardava con curiosità. Mi ero lasciata baciare e il cuore aveva cominciato a fare capriole ma nonostante l'emozione provata, lo avevo allontanato. Non potevo ascoltare i sentimenti. Non allora. Il giorno dopo mi sarei trasferita in città con i miei genitori. Avevano trovato un lavoro di portierato in un prestigioso palazzo del centro, abitato da dottori, avvocati e architetti. Intorno c'era un grande giardino, che avremmo dovuto curare, oltre naturalmente alle pulizie di scale, ascensori e incombenze varie. Là, la vita sarebbe totalmente cambiata. Avrei vissuto a contatto con persone ricche e
importanti. Ero giovane e molto bella e senz'altro uno di loro si sarebbe innamorato di me, chiedendomi di sposarlo. Avrei fatto la vita da signora di città, non la vita di moglie di un fabbro di un piccolo paese nascosto fra i boschi. Naturalmente non dissi tutto questo al giovane che mi guardava con occhi innamorati. Dissi solo che non volevo impegnarmi data la prossima lontananza e poi per lui provavo solo una profonda amicizia. I suoi occhi si erano riempiti di dolore e io mi ero morsicata le labbra per non dirgli che era solo l'ambizione che mi fermava. Povera illusa! Nessun inquilino si era innamorato di me. Per loro ero solo la figlia dei portinai e i soli inviti che mi facevano erano per chiedermi se ero disposta a fare le pulizie anche nei loro appartamenti o per stirare montagne di camicie. Al quinto piano abitava un'anziana baronessa, che mi aveva presa in simpatia. Mi chiamava per farle compagnia e mi chiedeva di leggerle qualche libro, delle centinaia, che aveva nella libreria del suo studio, arredato con mobili antichi e, in stile francese. Leggendo mi ero fatta una discreta cultura e la signora mi aveva insegnato anche ad usare la macchina da scrivere. Ma era molto anziana e dopo qualche anno aveva lasciato questo mondo, tranquillamente, mentre dormiva. A funerali avvenuti, ero stata invitata nello studio dell'avvocato del terzo piano e qui avevo appreso che la baronessa mi aveva lasciato in eredità qualche parure di gioielli e una piccola somma di denaro, che su consiglio dei miei genitori, depositai in banca, per una sicurezza futura. Gli anni passavano, qualche giovane dei dintorni aveva tentato di corteggiarmi, ottenendo solo un rifiuto. Non capivo questa freddezza. Era solo perché ancora speravo in un marito ricco o era il ricordo di quell'unico bacio sotto lo sguardo di un asinello?
Ero quasi arrivata. Dopo quell’ultima curva avrei visto la cappellina e avrei potuto rilassarmi e pensare in totale solitudine. In tutti quegli anni non ero più ritornata neppure a vedere la nostra casetta giù in paese. Solo i miei genitori erano venuti un paio di volte e avevano lasciato le chiavi in custodia alla Maria, una gentile vicina, che però si era spenta da qualche mese. Dopo molti anni, i miei cari ormai anziani avevano lasciato il lavoro nel palazzo e ci
eravamo trasferiti in un grazioso appartamento acquistato con grandi sacrifici ma ben presto anche per loro era venuto il tempo di chiudere gli occhi. Io avevo trovato lavoro come commessa responsabile in un grande negozio di abbigliamento e da un mese ero andata in pensione. Erano state quindi queste circostanze a farmi decidere per quel ritorno. Volevo fare qualche foto alla vecchia casa per affidarne la vendita ad un’Agenzia Immobiliare. Certo non ne avrei ricavato molto perché dopo così tanti anni l’avrei trovata in uno stato precario, ma tanto valeva provare. C’era sempre qualche cittadino desideroso di pace e silenzio, che cercava una casa anche da ristrutturare. Eccomi finalmente, ma è un moto di stizza che provo. Seduto sul muretto c’è un uomo. Non è possibile, proprio lì doveva venire a sedersi? Comunque sono stanca e devo riposarmi, tanto vale approfittare del muretto. L’uomo al rumore dei miei passi si volta e un’espressione prima di stupore e poi di gioia, si alterna sul suo viso. Allunga le mani verso di me. “Rita! Sei proprio tu?”. “Bruno!” dico e le labbra mi tremano. Mi prende la mano e mi fa sedere. Mi sembra di rivivere la scena di quarant’anni fa, ma non è una dichiarazione d’amore, che esce dalle sue labbra, è un fiume di domande. “Sei proprio tu? Sei sempre bellissima. Raccontami tutto di te. Come mai sei ritornata?”. Parla e parla ma lo sguardo è fisso sugli anelli che ho alle dita. Sono quelli della baronessa ma non c’è nessuna fede nuziale. “Non mi sono mai sposata e tu?” “Neanch’io.” Sorride perché l’asinello si è avvicinato a cercare coccole. “Devo scendere, si fa tardi”. Ci incamminiamo. Tolgo dal marsupio un altro pacchetto di crackers e l’asinello scende con noi, fino al prato, dove raggiunge i suoi compagni. Ci voltiamo per salutarlo e scoppiamo a ridere perché ci siamo messi a canticchiare all’unisono “Caminito cubierto de cardos, che il tiempo...”. Saliamo sulle nostre auto e dopo una decina di minuti ci fermiamo davanti alla casa. Non ho il coraggio di guardarla. In quarant’anni il tempo si sarà divertito a consumarla. Scendo e rimango a bocca aperta. L’alto zoccolo intorno e lo stipite della porta sono freschi di calce. I ganci degli scuri sono nuovi, in ferro battuto. Guardo Bruno con aria interrogativa. “Mi sono permesso di fare qualche lavoretto.” “Perché non mi hai cercata, ti avrei mandato i soldi delle spese”. I suoi occhi si rattristano. “Così mi offendi. Mi spiaceva vederla rovinarsi e l’ho fatto nel tempo libero. Per me era un passatempo, non pensavo te ne avessi a male”. “No scusa, è stata la sorpresa a farmi parlare così e ti sono riconoscente di tutto questo”. Apro la porta, le stanze sono vuote. I pochi mobili erano stati regalati dai miei genitori ad una famiglia bisognosa ma, le pareti sono imbiancate. “Ho dato solo una passata di tempera” dice Bruno e poi “Ma ora che cosa hai intenzione di fare? Ritorni a vivere qui?”. “Sinceramente non lo so. Ero venuta con l’intenzione di fare foto per metterla in vendita ma ora sono piuttosto confusa e devo pensarci meglio. Devo andare, si fa tardi e ho centocinquanta Km. di strada che mi aspettano. Mi serviranno per pensare. Mi aiuteranno a prendere la decisione giusta”. Usciamo, chiudo la porta, mi avvicino all’auto e allungo la mano per salutare. Bruno la stringe forte. Ho un desiderio pazzo di abbracciarlo. Chissà se anche lui prova la stessa cosa. Faccio due passi, poi mi volto, mi alzo sulla punta dei piedi e gli do un leggerissimo bacio sulle labbra e il cuore fa un balzo da fare invidia a un canguro. Salgo in auto velocemente, metto in moto e parto. Dopo qualche metro do un piccolo colpo di clacson e nello specchietto retrovisore, vedo Bruno che mi manda un bacio con la mano.
VSM



mercoledì 12 dicembre 2012

IL MENDICANTE ( racconto filoss)


Maria era una donna poco più che trentenne. Viveva in un piccolo paese di montagna, dove il panorama era meraviglioso e l'aria sana ma questo, non compensava la miseria lasciata dalla guerra, Ed era stata proprio la guerra a toglierle per sempre il marito. Ed inoltre per colpa di una bomba scoppiatale vicino, aveva avuto un gravissimo danno ad una gamba, che la costringeva a muoversi sempre con un bastone. Aveva tre figli in età scolare e lei cercava di mantenerli nel migliore dei modi, lavorando, con grande fatica, la poca terra di sua proprietà e con le due mucche assicurava la colazione e spesso anche la cena, con zuppe di latte fresco, pane fatto in casa su cui stendeva burro, anche questo fatto da lei e marmellata, preparata con la frutta di due alberi che aveva nell'orto. E proprio questo era un'altra costante fonte di nutrimento. Il resto del latte, non utilizzato veniva raccolto giornalmente dal cascinaio, in modo da poter aver anche qualche soldo perché, la pensione di guerra del marito e la sua invalidità erano ben poca cosa. Si stava avvicinando il Santo Natale e lei, di nascosto, aveva preparato, come regalo per i figli, tre maglioni caldi e colorati. Non poteva fare di più ma i suoi figli non si lamentavano mai ed erano sempre sereni, Perché comprendevano le fatiche della mamma e si adoperavano come meglio potevano per aiutarla. Quella sera però erano tutti e tre a letto con la febbre e lei seduta a rammendare calze e pantaloni, accanto al camino, pregava in silenzio, Colei di cui portava il nome, perché li facesse guarire in fretta. Pensava che per il giorno di Natale, avrebbe preparato un ciambellone e al centro, nel buco lasciato dalla scodella messa durante la cottura, avrebbe posto alcuni cioccolatini, che le aveva regalato la bottegaia e già pregustava la gioia negli occhi dei suoi bambini. Fuori soffiava un vento fortissimo, che faceva montagnole con la neve che cadeva abbondante. Sentì bussare e chiedendosi chi poteva essere a quell’ora e con un tempo simile, andò ad aprire. Si trovò davanti un povero mendicante, che le chiedeva la carità di un pezzo di pane. Aveva indosso un mantello vecchio e strappato e scarpe rotte che gli lasciavano i piedi scoperti. Lo fece entrare, lo fece sedere accanto al camino acceso e lo rifocillò con un piatto di minestra calda, una fetta di pane e un bicchiere di vino. Il mendicante non smetteva di ringraziare e lei dopo avergli dato degli stivali e dei vestiti del marito defunto, gli disse, che avrebbe potuto dormire al caldo della stalla, dove c’era anche un bel mucchio di paglia asciutta e pulita. Il Mattino dopo, Maria si alzò presto, come di consueto e con grande gioia, trovò i figli sfebbrati, svelti e già vestiti perché non volevano perdere l’ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze natalizie. Andò nella stalla, per dire al suo ospite di andare in casa dove lo aspettava una scodella di zuppa calda e per mungere prima dell’arrivo del cascinaio, che se non trovava il latte già nel bidone sotto al portico accanto alla casa, cominciava a bestemmiare dicendo che lui non aveva tempo da perdere. Con sorpresa vide che non c’era presenza del mendicante però, la stalla era pulita, il latte munto già nel bidone e sulla paglia vi erano i vestiti rotti e un’immagine della Madonna con il Bambino in braccio. Pensò fosse opera dello sconosciuto e pregò Dio perché proteggesse tutti i viandanti. Si accinse quindi a portare fuori il bidone del latte ben chiuso e si accorse che si stava muovendo bene e in fretta senza l’aiuto del bastone. Si sentì pervadere da un’immensa gioia ma giunta sotto al portico, si sedette su un gradino perché temeva di svenire per una cosa così grande, improvvisa e per lei misteriosa. Era sicura di non sognare perché il camion del cascinaio si stava avvicinando, suonando il clacson come sempre. Si alzò e piangendo corse incontro all’uomo, che nel frattempo era sceso dalla cabina del mezzo. Continuando a pianger gli raccontò quanto le era accaduto, saltellando e piroettando in mezzo alla neve per convincerlo e convincersi, che la cosa fosse vera. L’uomo dopo averla ascoltata e guardata incredulo, improvvisamente si tolse il cappello, si fece il Segno di Croce e cominciò a pregare stupito che le parole, che credeva di aver dimenticato, uscissero con così grande facilità dalle sue labbra. Un raggio di sole bucò per un istante una nube e la neve sembrò un tappeto di diamanti.

lunedì 3 dicembre 2012

I RACCONTI NEL CORTILE (racconti per filoss antichi)



Si stava bene nel cortile fra le case, nei pomeriggi primaverili. Sedevano su basse panche le vecchie, lavorando vimini, raccolti al mattino presto, nel greto del torrente. Toglievano prima la scorza usando un attrezzo, che nel dialetto veniva chiamato, sgurbia. Guardavamo affascinati, noi bambini, quelle dita magre e avvizzite, che si muovevano agili con quei sottili rami, umidi di linfa, intrecciandoli e trasformandoli in canestri e cesti di diverse misure. Li avrebbero poi venduti al giovedì mattina, nel mercato del paese. Ci guardavano sorridendo, con sorrisi vuoti e occhi infossati. Sapevano che stavamo aspettando i loro racconti, e a turno Cominciavano. Ma quando raccontavano la storia della ragazza e del diavolo, prima di cominciare, si facevano il segno di croce e ci invitavano a fare altrettanto…..” Era una ragazza bella, che in un pomeriggio di festa, era andata in paese con le amiche. C’era la fiera e su una pista di legno si poteva ballare al suono di una fisarmonica e di una chitarra. Non le mancavano certo i pretendenti e aveva ballato a lungo, con i ragazzi del paese, amici di sempre. Si stava riposando, seduta su una panca, quando un giovanotto sconosciuto, le chiese il permesso di accomodarsi accanto. Era bello, con modi gentili e uno sguardo affascinante. Si presentò con il solo nome e aggiunse che non poteva invitarla a ballare perché a causa di un recente incidente aveva qualche difficoltà nel muovere i piedi. Le disse che veniva da una città abbastanza lontana e cominciò a parlare della vita comoda che vi si conduceva. Le case erano belle, con grandi comodità come l’acqua calda corrente in cucina e in bagno. Non c’erano certo i gabinetti nel cortile come in quel piccolo paese. Vi erano negozi illuminati con la luce elettrica e nelle vetrine erano esposti abiti che avrebbero fatto la felicità di qualunque donna e certamente sarebbero stati perfetti, anche indossati da lei. Chiacchierarono a lungo e la ragazza pendeva dalle sue labbra. Quando le amiche la chiamarono per fare ritorno a casa, si riscosse come se uscisse da un sogno. L’uomo le chiese il permesso di andare a farle visita a casa, dopo qualche giorno e lei accettò, quasi senza renderse ne conto. Raccontò tutto alla madre, che restò perplessa. Il suo istinto le diceva di non fidarsi ma aspettò ad esprimersi perché prima era giusto conoscerlo. Dopo qualche giorno, la sera era già scesa e le due donne, che vivevano sole, dopo il recente lutto che le aveva private del marito e padre, avevano già consumato una cena frugale, sentirono bussare alla porta. La madre stava lavorando a maglia e quindi fu la ragazza che si alzò per andare ad aprire. Si trovò di fronte al giovane di città, che chiese il permesso di entrare. Lo fece acomodare e lui salutò educatamente la padrona di casa, dicendole di non alzarsi e le porse una scatola di dolci. La donna ringraziò ma nel prendere il dono, sentì un brivido di paura. Cercò di rimanere tranquilla per poter giudicare lucidamente l’ospite. Si era seduto sulla panca vicino alla ragazza e parlava incessantemente. La stanza era illuminata solo da una candela e quindi non era possibile vederlo bene in volto anche perché si era seduto i modo da avere la luce alle spalle e non aveva mai cambiato posizione. Se ne stava fermo e con i piedi sotto alla panca. Dopo un paio di ore si accomiatò, scusandosi anche con la signora per il suo modo strano di camminare ma disse che presto si sarebbe ripreso e promise, se aveva il loro permesso, di tornare. La ragazza lo accompagnò alla porta e sedutasi di nuovo accanto alla madre, cominciò a tessere le lodi di quel nuovo amico. Per risposta ebbe solo dei dubbi che però purtroppo, la lasciarono indifferente. Le visite si ripeterono, sempre alla sera, sempre con doni e anche con lo stesso modo di stare seduto. La giovane, totalmente presa da questo amore, parlava ormai solo di come sarebbe stata favolosa la vita che le prometteva l’uomo, nella grande città. La madre non riconosceva più la dolce, assennata figlia e i suoi tentativi di farla rifletter erano giudicati come invidia. Una sera, durante una delle solite visite, la madre era intenta come sempre, nel lavoro a maglia, quando, un gomitolo le cadde a terra e lei si chinò per raccoglierlo. Nel fare ciò, guardò sotto la panca, dove teneva i piedi l’ospite e quello che vide le gelò il sangue. Non erano piedi quelli che vedeva ma zoccoli. Con uno sforzo immane, mantenne la calma e con una scusa si alzò e andò nella camera da letto. Il giovane cercò di approfittare di quell’attimo per carpire il primo bacio alla ragazza ma non ne ebbe il tempo perché la donna rientrò. Si avvicinò sorridendo all’uomo dicendogli di guardare che cosa avevano regalato alla figlia. Lui allungò la mano e lei vi pose sopra la coroncina benedetta, ricordo della Prima Comunione. La coroncina sfiorò appena la mano tesa e la stanza fu invasa da un gran fumo e l’uomo si dissolse urlando e gemendo. La ragazza non capiva cosa fosse successo, tremava come una foglia e sembrava appena uscita da un tremendo incubo notturno. Quando, dopo essersi calmata, ascoltando le spiegazioni, si rese conto, che il giovane altri non era che il demonio, che cercava di rubarle l’anima. Si buttò tra le braccia della mamma, ringraziandola di averla salvata e scusandosi di non averla ascoltata prima. Il giorno seguente, raccontarono il fatto al parroco, che diede a loro e alla casa una speciale benedizione. Nella giovane ritornò la serenità ma quella coroncina rimase sempre accanto a lei”.
 
 

giovedì 12 luglio 2012

WENDY



C'era una volta... No, no, assolutamente no. Non, c'era una volta perché io ci sono ancora. Non sono la protagonista di una fiaba ma, sono la protagonista di una storia vera. Mi chiamo Wendy e sono una bellissima (scusate l'immodestia, ma io mi vedo così) puledrina. Sono nata in un giorno di sole e dopo un periodo vissuta in un luogo scuro e caldo, mi sono ritrovata sdraiata in mezzo all’erba. Una grossa lingua mi leccava tutta. Ho aperto gli occhi e ho compreso che la presenza, che mi stava coccolando era la mia mamma. Mi sono rilassata mentre un senso di felicità mi pervadeva ma, la mamma cominciò a spingermi con il muso, invitandomi ad alzarmi. Da brava cercai di ubbidire ma vi giuro, che non fu per niente facile obbligare le mie quattro zampe a restare diritte e in fatti mi ritrovai, ancora una volta sdraiata in mezzo all’erba. Poi dopo vari tentativi riuscii ad avvicinarmi ad un profumo invitante e cominciai a succhiare un buon latte, che riempiva il vuoto che avevo nello stomaco. Lo sforzo era stato grande e crollai di nuovo a terra dove feci un lungo sonno ristoratore. Al risveglio, la mamma mi offrì ancora un buon pasto e fu così per diversi giorni. Mi stavo rinforzando sempre più. Ora riuscivo a girare intorno a lei e a guardare ciò che mi circondava. Vivevamo, con un grande gruppo di cavalli in un immenso prato, di cui non riuscivo a vedere la fine. Avevo il pelo bianco come quello del mio papà e gli occhi azzurri, come quelli della mamma. Crescendo cominciai a fare amicizia con altri puledrini e insieme tentavamo di fare qualche breve corsa, sotto l’occhio vigile degli adulti. Io mi incantavo a vedere quest’ultimi, quando partivano al galoppo verso un punto lontano del prato. Diventavano sempre più piccoli fino a scomparire ma dopo un poco riapparivano e lanciavano forti nitriti di gioia. Dicevo che anch’io avrei voluto andare ma, la mamma mi sconsigliava dato, che ero ancora troppo piccola, e le mie zampe si sarebbero stancate in fretta. Non dovevo poi dimenticare, che in lontananza, verso le montagne, vivevano i lupi e sarebbero stati un gravissimo pericolo, nel caso mi fossi ritrovata sola. Vi garantisco che ascoltavo le raccomandazioni ma la tentazione di una corsa nel vento mi assillava sempre più. Era passata qualche settimana e diventavo robusta. Avevo provato ad assaggiare anche un po’ di erba ma per il momento preferivo ancora il latte. Quel giorno era nato un nuovo puledrino ed erano tutti molto intenti ad ammirarlo, così l’attenzione delle madri era attenuata. Perché dunque non approfittarne? Gironzolai un poco intorno, cercando di non dare nell’occhio e allontanarmi dal gruppo. Quando reputai fosse giunto il momento giusto mi lanciai al galoppo verso quel punto indefinito. Era meraviglioso, Sentivo il vento che mi accarezzava. Rimpiangevo solo di non avere una criniera lunga come quella di papà, che quando correva si apriva a ventaglio ma la sensazione era comunque esaltante. Galoppai e galoppai fino a quando il prato finì e davanti a me si aprì un panorama diverso. Il terreno saliva in un leggero declivio, che si faceva sempre più erto e al posto dell’erba c’erano pietre e rocce. Gli alberi erano grandi, circondati da cespugli pieni di spine. La cosa non mi piacque e decisi, che era giunto il momento di ritornare. Mi voltai ma davanti scorsi solo un bianco impenetrabile muro di nebbia. Da che parte era il punto da dove ero partita? Cercai di non farmi prendere dal panico. Forse salendo un pochino avrei potuto vedere più lontano. Feci così ma nel frattempo era cominciata una pioggia sottile ma insistente che rendeva le pietre scivolose e le mie giovani zampe erano ormai veramente stanche. Procedendo adagio mi rifugiai sotto ad un albero con la chioma grande e folta e questo mi tranquillizzò un pochino. Dovevo solo aspettare. La pioggia sarebbe cessata, la nebbia si sarebbe dissolta e io sarei tornata dalla mamma anche perché la fame cominciava ad essere prepotente e il mio stomaco brontolava, come se stesse rimproverandomi. Il tempo passava ed io credo di essermi addormentata perché, riaprendo gli occhi, mi accorsi che si era fatta notte. Non pioveva più ma la nebbia era ancora lì, compatta e impenetrabile. Non potevo certo muovermi e poi quelle pietre scivolose erano un pericolo. Ora la fame era veramente grande ma lo era ancora di più la paura. Non mi era mai capitato di trovarmi da sola e per di più in un luogo sconosciuto. I miei guai però, non erano ancora terminati perché all’improvviso sentii un ululato, che si faceva sempre più vicino. Che fare? Fuggire era impensabile. Mi voltai e vidi a poca distanza gli occhi lucidi di un lupo che mi fissava. Presa dalla disperazione cominciai a nitrire più forte che potevo e nel frattempo battevo forte gli zoccoli sulle pietre. Il lupo mi guardò per un minuto, poi se ne andò. Non saprò mai, se lo avevo spaventato o se non aveva fame. Mi appoggiai al tronco dell’albero perché mi sentivo mancare la forza. La notte mi sembrò interminabile anche perché stavo bene attenta a non addormentarmi. Finalmente il mattino cominciò a rischiarare il panorama e la nebbia se ne andò scacciata dal vento e dai primi caldi raggi. Ora potevo scendere da quel luogo infelice. Stando attenta al terreno ancora scivoloso giunsi finalmente nel prato. Cercai di orizzontarmi per tornare, quando sentii in lontananza dei nitriti. Erano la mamma, il papà e tutti gli altri, che erano venuti a cercarmi. I rimproveri non ve li racconto perché ve li potete immaginare ma, quando la mamma mi permise di prendere il suo latte, mi ripromisi che non avrei mai più fatto una cosa simile. Sono passati due anni. Ora sono una giovane puledra e la mia mamma mi ha appena regalato un fratellino. Ha il pelo scuro e gli occhi azzurri ed è bellissimo. Io sono diventata la sua guardiana e appena capirà, gli racconterò la mia tremenda avventura perché, gli serva da monito. A proposito, la mia criniera si sta allungando e quando galoppo si apre a ventaglio, come quella di papà e credetemi, è meraviglioso.

mercoledì 28 marzo 2012

LA PASQUA DI ANNA


Oggi è un giorno di festa...
Ma non un giorno di festa qualunque, oggi è la Santa Pasqua. Questo è il primo pensiero di Anna appena sveglia. Anna è una donna di quarantacinque anni, di una bellezza mediterranea, capelli sciolti sulle spalle, curati dal parrucchiere di fiducia. E' un'avvocatessa, che ha saputo farsi un buon nome e non le manca certo la clientela. Si siede sul letto, appoggiandosi ai cuscini. La stanza è arredata con mobili moderni ma di gran pregio. Anche le altre stanze sono arredate con bellissimi mobili ma, non cupi, pesanti, sono mobili, che conferiscono un'aria luminosa all'ambiente. Le pareti sono imbiancate di fresco, di un tenuissimo giallo. Appesi, numerosi quadri, anche di autori quotati. Intorno, silenzio. Non un silenzio rilassante ma quasi gelido, che neppure il riscaldamento acceso riesce ad attenuare. La donna appoggia le mani sul viso, sulla fronte, quasi a voler cancellare tristi pensieri, che premono per uscire. Si rivede bimba in altri giorni di Pasqua, nella povera casa, fra i monti dove per anni ha vissuto. La miseria era compagna quotidiana, la legna era scarsa, le pareti un poco scrostate negli angoli, dove la muffa si nascondeva, forse per pudore. Nei giorni d'estate, la madre lasciava sempre le finestre aperte, per cercare di ovviare al problema e durante l'inverno era più forte il calore della famiglia, che quello della stufa. I mobili erano ridotti al minimo indispensabile ed erano vecchi e scuri. Su una mensola di legno marrone, c'era una Madonnina con il manto azzurro e a Lei erano rivolte le preghiere quotidiane perché l'armonia, compensasse il dolore. In quei tempi, la polenta, rappresentava la quotidianità, sulla tavola e Anna, a volte, pregava la Madonna perché potesse un giorno, mangiare pane e cioccolato. Dopo anni, la famiglia si era trasferita in città e lei aveva cercato di dimenticare il passato. Era giovane, caparbia ed intelligente. Con grandi sacrifici era riuscita, lavorando di giorno e studiando alla sera a laurearsi a pieni voti. Dopo l'esame distato, aveva aperto uno studio tutto suo e mancati i genitori, aveva rinunciato ad una vita affettiva a favore della carriera. Desiderava una casa di lusso, la sicurezza di un conto in banca, quasi volesse esorcizzare un passato di povertà. Ora aveva tutto questo. Il pane sulla tavola, era sempre fresco e il cioccolato lo limitava, per non sciupare la linea, ancora perfetta, aiutata anche da qualche ora di palestra. ma, era sola, anche in un giorno di Pasqua. Scese dal letto, entrò in un bagno con marmi, specchi e cristalli. Si lasciò scorrere sul corpo, l'acqua calda della doccia ma, neppure questo riuscì a togliere il gelo, che sentiva dentro. All'improvviso un pensiero si fermò nella mente. Si asciugò in fretta. Indossò una morbida vestaglia, uscì dal bagno, prese una scaletta dal ripostiglio e l'aprì davanti all'armadio, fatto costruire su misura, che arrivava fino al soffitto. Salì fino all'ultimo gradino, aprì un'anta e cominciò a frugare con ansia e frenesia. Scartava scatole messe lì nel corso degli anni, contenenti cose, che riteneva inutili ma, che non aveva avuto il coraggio di buttare e finalmente eccola. Scese dalla scala e l'appoggiò delicatamente sul letto, dopo averla baciata. Era la Madonnina, con il manto azzurro, che tante volte aveva pregato, insieme alla mamma. La mise sul tavolino accanto al letto. Senza quasi rendersene conto, s'inginocchiò e cominciò a pregare, mentre le lacrime le bagnavano le guance. Sentì un suono di campane. Erano quelle della chiesetta della Casa di Riposo, che sorgeva accanto al palazzo dove viveva. Passando ogni giorno, vedeva molti ospiti nel giardino, dietro la cancellata. A volte qualcuno la salutava ma lei, rispondeva sempre distrattamente. Era troppo presa dalla sua ambizione, eppure un sorriso non costa nulla. La campana continuava a suonare, invitando alla Messa Pasquale. Anna si alzò, si vestì in fretta, un trucco appena accennato, afferrò la borsa al volo e corse via leggera, verso quell'invito. Dopo tutto era Pasqua, Pasqua di resurrezione.