Se ne stanno riuniti in gruppi
nella grande sala della Casa di Riposo.
Seduti su seggiole con le ruote
che mai avrebbero voluto.
che mai avrebbero voluto.
Donne, che di un fazzoletto nero in testa
ne facevano quotidianità.
Mani nodose
dall’artrite
dall’artrite
avvezze a torcere lenzuola,in gelide acque
a mungere mucche, a zappare orti
per la certezza dei pasti ricorrenti.
mani sempre indaffarate, con scope di saggina
a spazzare stanze e rincorrere figli e galline.
Uomini, che toglievano il cappello
davanti a chi per loro, era autorità.
Mani forti, robuste che rompevano zolle
piegavano viti e spaccavano legna.
Mani, che han dovuto stringere un fucile
con la morte nel cuore e la speranza
di non trovarsi di fronte gli occhi spaventati
di un nemico sconosciuto.
Mani dall’aspetto rude che riposano in grembo.
Mani, che diventano leggere come ali di farfalla
quando si sollevano a sfiorare il viso di un bimbo
che in visita è venuto a portar loro un sorriso.
Quante riflessioni ci suggerisce Valentina in questa lirica! Mi piace partire dagli ultimi versi, pieni di delicatezza (più che di tristezza) resa evidente dall’utilizzo di termini come “leggere”, “sfiorare” e “sorriso”. Nella parte restante della composizione domina un’atmosfera cupa e amara. La storia precedente delle “mani”, prima che approdassero nella Casa di Riposo, è caratterizzata da lavori pesanti e persino dal contatto con… le armi. Mani queste, descritte da Valentina come “nodose, forti, robuste, dall’aspetto rude”, quando hanno fatto la storia dei paesi delle nostre montagne, e che, ora, diventano “leggere”, per rispondere al sorriso di un bimbo!
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